Catalogue Record n: 0303267673-9
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Scheda catalografica n: 0303267673-9
ita
0303267673-9
2023-07-19 03:05:57.563748
ICCD12296448
% per rimarcare il ruolo benefattore dell’autorità cittadina, da un certo momento in poi incarnata dagli esponenti del casato gonzaghesco. L’utilità delle opere edilizie ai fini della protezione militare e della vita economica della città trova espressione nel dialogo fitto (garanzia di trasparenza e compartecipazione) tra rappresentante del governo e ingegnere incaricato: due poli attorno ai quali ruotano varie scene della sala. La connessione, infine, che Koering stabilisce sul piano semantico tra passato e presente risiede nella scelta degli episodi illustrati al fine di giustificare, anticipandole, le imprese di edilizia cittadina e di fortificazione di Guglielmo Gonzaga, fonte di gravi scontenti nella popolazione mantovana. La continuità padre-figlio – Federico II e Guglielmo – nell’ipotizzata costruzione della fortezza di Porto sarebbe, dunque, l’episodio di palese tangenza del presente con la storia. Come per tutti gli altri dipinti del ciclo, la responsabilità della scelta del soggetto spetterebbe all'architetto e pittore Giovan Battista Bertani che, ricorda Berzaghi (2014, pp. 282-283, nota 58), già fece ricorso al tema della fondazione di Mantova, oltre che nella citata sala della Mostra, per l'allestimento degli apparati alla porta del Castello in vista dell'ingresso nel 1549 di Caterina d'Austria, sposa di Francesco III Gonzaga. L'esecuzione, mediante tecnica a secco (forse olio), è assegnata da Tellini Perina (1974) a Lorenzo Costa il Giovane, artista mantovano subentrato all'ignoto pittore “forestiero” cui si riferisce la citata lettera di Teodoro Sangiorgio del 16 aprile 1574. L'attribuzione è unanimemente accettata dalla critica (cfr. Gozzi 1976, pp. 37-38; 47-48; Bazzotti, Berzaghi 1986, pp. 11-12; Tellini Perina 1998, p. 120-124; Berzaghi 2002, p. 552; Berzaghi in Algeri 2003, pp. 232-233; L'Occaso 2009, pp. 66-67; Koering 2009; Koering 2013, pp. 326-333). L'opera è stata restaurata da Arturo Raffaldini tra 1926 e 1927. Lo stato del dipinto e del resto del ciclo prima di tale intervento è ricordato come “gravissimo” da Cottafavi (1929): “le tempere degli otto grandi pannelli ormai non si leggevano quasi più ricoperte come erano da strati di polvere e di sudiciume che ne venivano staccando i segni e graffiti di contorno delle figure ed il colore”, “lo strato dei colori […] squamato e accartocciato”, estese le lacune. Il restauratore ha innanzitutto steso e fissato “lo strato dei colori che si era squamato e accartocciato” con ferri caldi, quindi integrato, dove incisioni e tracce di pellicola originale lo rendevano possibile, le lacune, procedendo a intonazioni a “macchie” nei casi non più interpretabili. Il dipinto non pare rientrare tra i riquadri della sala sottoposti a restauro da parte di Guido Gregorietti tra 1954 e 1955 (Valli 2014, pp. 494-495). In occasione del restauro dell'Approdo di Manto effettuato dalla ditta Coffani nel 1975 (Valli 2014, pp. 494-495), le restanti scene, tra cui quella in esame, sono state consolidate in superficie (com. or. Archinto Araldi); una pulitura seguita da probabile consolidamento mediante più passaggi di resina acrilica sembra deducibile dalla relazione di restauro dei murali stesa da Marcello Castrichini (1990, in Valli 2014, pp. 494-495) che, del riquadro in oggetto, ricorda una conservazione “di buona parte di tessuto originale”